Dylan tornò a Swansea per Natale, ma per i primi giorni dell'anno nuovo era nuovamente a Londra. Ormai 18 Poems era stato pubblicato (il 18 dicembre o press'a poco) e aveva attratto l'attenzione in una cerchia limitatissima. Charles Fisher era uno dei più intimi amici di Dylan a Swansea; avevano lavorato insieme al «Post», ove Fisher continuava ad essere occupato come giornalista. Le persone cui si riferisce l'ultimo paragrafo sono amici di Swansea, quasi tutti legati al giornale.


a Charles Fisher
Londra,

febbraio 1935

 

Caro Compagno Fisher,

  grazie infinite per la tua lettera, alla quale avrei risposto prima se non fosse stato per circa venti ragioni; il gelo abominevole che ingranchisce le dita, prolungando le dolci ore di letto, e costringendo in ultimo lo stanco mezzo-addormentato ad accendere un fuocherello su una grata insufficiente; il peccato della pigrizia, capace di cancellare la virtù positiva che considera il peccato e la virtù pigramente, imparzialmente ed equamente; la mancanza di inchiostro, la mia strega mansueta avendo, benedetti i suoi seni, rovesciato il contenuto di un intero flacone sul pavimento di linoleum; i crucci di una vita che consiste, per la maggior parte, nell'erigere il cervello sulla carta e nel demolire il corpo, il corpo piccolo e troppo debole per sopportare sia l'erezione di un adeguato cervello, sia lo strofinio dei banchi dei bar; la pressione delle parole, la mancanza di francobolli; l'influenza in embrione, un moccioso feto dalla faccia di gallina che nuota, molto rosso, dietro il naso; e altre dodici ragioni, tutte troppo complicate perché possa addentrarmici adesso. Dato che l'inchiostro ancora macchia il linoleum e che la mia strega dorme, devo battere a macchina questa lettera. I tasti sono gelidi.
  Mi hai pregato di parlarti della mia teoria della poesia. Davvero non ne ho una. Mi piacciono le cose difficili a scriversi e difficili a capirsi; mi piace «controbilanciare i contrari» con immagini segrete; mi piace contraddire le mie immagini dicendo due cose alla volta con una sola parola, quattro con due e una con sei. Ma quel che mi piace non è una teoria, anche se do stabilità con il dogma alle mie preferenze personali. La poesia, pesante nella tara anche se agile, dovrebbe essere orgiastica e organica come una copulazione, dividendo e unificando, personale ma non privata, propagando l'individuo nella massa e la massa nell'individuo. Secondo me dovrebbe agire dalle parole, dalla sostanza delle parole e dal ritmo delle parole sostanziali messe insieme, e non verso le parole. La poesia è un mezzo, non una stimmate sulla carta. Gli uomini dovrebbero essere forniti di due arnesi e la gamba di mezzo di un poeta è la sua matita. Se la sua fallica matita si trasforma in un trapano elettrico, spezzando il catrame e il cemento del linguaggio assottigliato dalle gomme di triciclo dei poeti della natura e dalle pesanti sei ruote dei Sir accademici, tanto meglio; ed è il lavoro che conta, signora, il genio essendo così spesso una capacità di dolorose sofferenze.
  A proposito dei manoscritti. Sono molto contento che tu voglia il manoscritto di qualche mia poesia, e cercherò di farti avere quello che vuoi. Ma il mio metodo è questo: scrivo una poesia su innumerevoli pezzetti di carta, la scrivo su entrambe le facce della carta, spesso capovolta e diagonalmente senza punteggiatura, circondata da disegni di lampioni stradali e di uova sode, formando un pasticcio molto sudicio; a poco a poco copio la poesia che adagio va sviluppandosi in un quaderno; e, quando è terminata, la batto a macchina. I pezzetti di carta li brucio, perché ve ne sono tanti che ingombrano la stanza e vanno a finire sulla birra e sul pane. Dunque che cosa posso mandarti? Una copia battuta a macchina? O devo scriverne una per te? Oppure salvare dal fuoco in attesa la prossima infornata di foglietti quasi illeggibili? Qualunque cosa tu preferisca. Sono ai tuoi ordini.
  Scrivi ancora presto. Io scrivo così poche lettere, e mi piace scriverle, anche se il mio stile ha il passo un po' troppo pesante. Porgi i miei omaggi al signor Job; impedisci al signor Hatcher di portare al cinema troppe cameriere di Woolworth: infila una rosa nei capelli di Reuben; ricordami a Bill Latham e a Tom Lucy; e di' a Eric che il sidro devastatore di Hennekey costa adesso due pence e mezzo penny al bicchiere.

 

Dylan

 

  PS. Il manoscritto, di qualunque cosa si tratti, te lo manderò quando mi avrai detto che cosa vuoi. Non posso darti i quaderni perché contengono le uniche copie che possiedo.

 

  PPS. Tu che cosa stai combinando? Non scrivi affatto, adesso? A parte cioè il lavoro quotidiano di scribacchino?

 

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Il romanzo d'amore di Dylan con Pamela Hansford Johnson dileguò una volta che egli si fu trasferito a Londra, ma non vi fu mai una rottura netta. Questa, l'ultima delle lettere di Dylan dirette a lei, fu scritta probabilmente nella primavera del 1935. This Bed si riferisce al primo romanzo di Pamela: This Bed thy Centre.


a Pamela Hansford Johnson

Primavera

Cwmdonkin Drive 5, Uplands, Swansea

 

  Sono tornato a casa, dopo una vita da pezzente, per qualche settimana di riposo prima di andare a trascorrere l'estate in campagna. Avrei dovuto scrivere da gran lunga troppo tempo, perché ci sono tante cose da spiegare e tante che, forse, non saranno mai spiegate e non dovrebbero esserlo mai... significa un gran bel po' di strofinarsi il ventre e di scuse davvero lagrimose dalla mia dannata parte. Ma lasciamo stare. Gli inglesi non saranno mai schiavi, ed io sono un topo di fogna. Ho visto Janes prima di partire da Londra e mi ha detto che aveva preso il tè in tua compagnia e che tu stavi lavorando sodo al nuovo romanzo. Ha detto, però, che incontravi parecchie difficoltà. Ti farebbe piacere se io rivedessi, nella mia solita maniera brontolona, quello che hai scritto fino ad ora? Sai... per dire, «No, no, no, questo non può essere, troppo ridondante, troppo ridondante», e «questo è impossibile», e «Taglia, taglia, taglia» ecc. Mi piacerebbe davvero; tu scrivi meglio se hai qualcuno dietro le spalle a schernire quando diventi fiorita e ad adoperare una matita crudele sui tuoi più scelti grigi-pavone. Vorresti che rifacessi la mia revisione solita, la revisione di This Bed? Se lo desideri e non continui ad essere troppo adirata con me per tutte le cose stupide e noncuranti che ho fatto, mandami il manoscritto a casa, e io te lo rimanderò prestissimo e molto accuratamente riveduto. Affettuosità a tua madre e sempre a te.

 

Dylan

 

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Ai primi di marzo era tornato a Swansea. Era venuta a formarsi un'abitudine, un'abitudine che doveva durare per tutta la sua vita. A Londra erano bevute, conversazioni e donne. Quando si sentiva spossato da quello che in seguito chiamò «il castigo capitale», tornava nel Galles e lavorava. L'incontro con Richard Hughes, che era partito, non ebbe luogo fino all'anno seguente. In aprile egli andò a stare con A. J. P. Taylor, lo storico, e con sua moglie Margaret, nel Derbyshire, ove avevano un cottage.

 

a Glyn Jones
Swansea,

primi di marzo 1935

 

Caro Glyn,
  come vedi, i cimenti della vita si sono dimostrati eccessivi per me, i tribunali mi hanno riconosciuto colpevole, e, con gli occhi alquanto infossati e con poco vero lavoro a mio credito, sono tornato a casa per una vacanza di alcune settimane. Partirò, credo, nella prima settimana di aprile, ma per la campagna, allora, e non per Londra... Surrey, Cheshire, Derbyshire, non so dove. Ci si sente molto soli qui a Swansea, e i pochi vecchi amici debbono trascorrere le giornate lavorando e le serate indulgendo ad abitudini delle quali io ho avuto più che abbastanza... almeno temporaneamente. In questo momento sto lavorando ad alcuni racconti, ma non so se valgano qualcosa e vorrei che tu vi dessi un'occhiata. Te la senti di venire un sabato prima che io parta? C'è un monte di cose di cui dobbiamo parlare, e molta più tranquillità e più comodità di quante non ne avessimo nei bar e in quella mia miserabile stanza a Londra.
  Come te la stai passando? Non hai ancora mandato nessuna poesia a Geoffrey G.? E il tuo racconto dell'operaio che defecava sulla scogliera? L'«Adelphi» non ha ancora pubblicato l'altro racconto, vero? Papa Eliot ha risposto? E ogni sorta di altre domande.
  Ed ora ricordo uno degli scopi principali di questa lettera. Alcune settimane fa, nella cronaca locale del « South Wales Evening Post», v'era un paragrafo nel senso che Richard Hughes, in una lunga conversazione con il cronista sulla poesia moderna, aveva detto quanto ammirasse le mie poesie. Questo ci offre senz'altro il destro di avvicinarlo, non ti sembra? Che cosa diresti se gli scrivessi un biglietto e gli domandassi se possiamo andare a fargli visita nel suo castello un week-end? Se la tua automobile funziona ancora, potremmo fare una corsa fino a Laugharne, andare a trovare lui e la sua barba, e poi, o tornare a casa nostra questo potremo deciderlo in seguito oppure rimanere con i nostri parenti intorno a Llanstephan. Credo che passeremmo alcune ore interessanti. Non gli scriverò, naturalmente, finché non avrò saputo qualcosa da te.
  Levy, a proposito, il quale ha ferocissimi baffoni neri che gli arrivano sin quasi alla vita, ti manda i suoi saluti e cercherà di incontrarsi con te quando tornerà a Cardiff per Pasqua. Sarai laggiù, allora? Il suo indirizzo è sempre Redcliffe Street, 5.
  Scrivimi un rigo presto. Ho un gran desiderio di andare a far visita a Richard Hughes.

Tuo,                                                                        

 

Dylan

 

PS. Anche Roger Roughton vuole esserti ricordato. È appena partito per l'America.

 

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Geoffrey Grigson aveva fatto in modo che Dylan recensisse libri per il «Morning Post», del quale egli era il redattore letterario. L'asserzione secondo la quale Dent aveva pubblicato 18 Poems «inaspettatamente» è una falsità stranamente ingenua. E nemmeno Dylan aveva mai imparato il tedesco.


a Geoffrey Grigson

marzo? 1935

 

Caro G.,
  grazie di nuovo per i libri. Non posso mandare nessuna nuova poesia, adesso, in quanto Dent ha pubblicato il mio libro nel quale si trovano poesie inedite che volevo farle vedere inaspettatamente.
  La poesia tedesca mi è piaciuta. Sto cercando anch'io di imparare un po' di tedesco. Ecco che cosa ne ho ricavato: è stato spaventosamente difficile, e ho dovuto parafrasare alcune cose. Ma tutto il significato e l'uniformità e il metro e i concetti rimangono.
  Con affetto

 

Dylan

 

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La data della lettera che segue è incerta, ma fu scritta probabilmente nel luglio o nell'agosto del 1935. L'artista americano era Rockwell Kent, e il cottage una vaccheria trasformata in studio. Horatio Bottomley era un noto demagogo inglese del periodo della prima guerra mondiale, in seguito condannato al carcere per truffa.

 

a Bert Trick
luglio? 1935
Glen Lough, Contea Denegal

 

Caro Bert,
  può giovare a qualcosa dirti che da tre mesi a questa parte, o più, ho avuto continuamente l'intenzione di scriverti una lunga lettera, una sorta di monologo e conferenza di viaggio autoesplicativi e una necessaria conferenza sulla linea di condotta di un poeta gallese nel mondo stupefacente. Avevo l'intenzione di informarmi presso il Ventesimo Secolo sulle ernie economiche, e di accertare se il «Guardian» fosse riuscito a inventare un cinto per esse, di sapere qualcosa sul nuovo Vanoc del socialismo e sulle confusionarie imprese della vecchia cricca, di informarmi molto educatamente e sinceramente sulle questioni della salute, del lavoro e della felicità. Ma le mie intenzioni non sono mai molto salde, è il suono delle intenzioni che mi piace e così la lunga lettera è rimasta non scritta. I mesi hanno continuato a susseguirsi ed io sono passato dalle vette del Derbyshire ai bar di Londra, dall'alto corso del Tamigi alla sponda dell'Atlantico, senza dirti né ciao né arrivederci. Come va la famiglia? Come va il piccolo mondo? (È il grande mondo, in realtà). Che cosa hai letto e fatto? John continua a ballare con uno scheletro? Dal cadavere di Mainwaring H. non è ancora spuntato rabarbaro? Quante volte hai tenuto conferenze sulla «sifilizzazione» dell'uomo alle verginità incarnite di una cerchia di presuntuosi elevati al quadrato? Dimmi tutto di tutto. Mi trovo a quindici chilometri dal più vicino essere umano, eccezion fatta per il contadino sordo che mi da da mangiare. E nonostante il mare e i laghi e le mie carte e i libri e le sigarette (sebbene sia maledettamente difficile procurarsele e me ne rimangano poche) e la mia crescente ossessione per le cose sotto la pelle, a volte mi sento solo come Cristo e non riesco nemmeno a parlare con mio padre su una lunghezza d'onda eterea.
  Sono venuto qui «qui» è uno studio-cottage, appartenuto un tempo a un artista americano, appollaiato in un campo su una collina che guarda un piccolo frammento del selvaggio Atlantico con Geoffrey G. ma egli è tornato in città. E questa è una regione deserta e illetterata e senza diaframmi francesi, troppo lontana da Anderà, un villaggio dal quale non si può mai essere abbastanza lontani. Qui vi sono sule e foche e puffini che volano e sbuffano e giocano a un quattrocento metri dalla mia finestra, ove si trovano grandi rocce pietrificate come gli antichi fati e destini dell'Irlanda, e intorno e sotto ad esse ciottoli lisci e bianchi simili alle anime degli irlandesi morti. C'è una collina con un'enorme eco. Gridi, e gli irlandesi morti rispondono da dietro la collina. Li ho costretti a confessare che sono tristi, grigi, sperduti, dimenticati, morti e dannati in eterno. Vi sono figure di santa Brigida incrociate sulle travi del cottage, e tali figure si trovano lì per tenere a bada quello e quelli che dovrebbero essere tenuti a bada. Sono superstiziosi, qui, o pazzi, capricciosi o balordi, e gli sport sanguinati sono sport sanguinari, ma io so spezzare adesso la schiena a una trota con la stessa abilità di Geoffrey (che mi ha dato la canna assassina) ma con più coscienza.
  Le mie giornate in questi giorni sono pianificate accuratamente, o almeno convenientemente, sull'orologio che non ho (se il tempo è il ticchettio di un orologio, io sto vivendo in una buffa dimensione, in una casa senza ore): mi alzo alle nove, faccio colazione e le pulizie fino alle dieci, leggo o scrivo dalle dieci all'una, pranzo all'una, poi vado sui dirupi fino al mare, mi fermo laggiù o passeggio da quelle parti fino alle tre e mezzo o alle quattro, poi il tè. Dopo il tè scrivo fino ai primi momenti del crepuscolo, quindi mi arrampico sulle alture fino agli alti laghi, ove pesco finché non fa buio. Al ritorno, cena, letto. A cena bevo un po' di whisky irlandese di contrabbando. Fumo forte tabacco scuro in una pessima pipa. Un giorno alla settimana percorro i chilometri che mi separano da Glendormatie, ove si trovano un negozio e una birreria. Piove e piove. Tutti i maledetti gabbiani sono angeli caduti. Ranocchie e temporali e calamari e tafani e procellarie e moscerini e scarafaggi. Pecore morte tra le felci. Ma questa non è affatto una lettera scoraggiata. Le parole mi vengono facilmente. E la pioggia non può penetrare attraverso il tetto, ho un fiammeggiante fuoco di torba e l'unico suono è quello del mare su milioni di sassi. Ho anche la barba, un ricciuto onor del mento color zenzero, quasi regolare e dolcemente in disordine. La terrò definitivamente, credo, oppure quanto basterà, in ogni caso, perché i Trick e i Thomas e la mia Sirena di Mumbles (benedetti i suoi capelli e la sua coda) la ammirino e la tastino. Non mi mancano le nostalgie di casa, ma svaniscono subito, come tutti i pensieri di permanenza, e gli Uplands e il Giardino pubblico se ne vanno in un fumo bagnato. Nei momenti di più intensa nostalgia penso a me che scrivevo accanto alla stufetta a gas di fronte agli alti nudi greci, o che passavo davanti al tuo negozio andando alla fermata del tram, a me che mi affrettavo verso una grassa ostrica accompagnata dal sapore della birra, o mi dirigevo verso casa tua sotto la pioggia domenicale e sedevo con te accanto al fuoco finché non avevamo rimesso a posto il mondo intero, e tutto il mondo gallese è tenebroso. Ma non rimarrei a casa se fossi a casa. Qualsiasi posto in cui mi trovi sembra non essere altro che un luogo di riposo tra luoghi i quali divengono luoghi di riposo tra i luoghi di riposo stessi. Questa è una condizione d'essere essenziale, un'astrazione concreta come un tafano, che ti sta sempre infastidendo alla nuca, tormentandoti ed esasperandoti prima di succhiar sangue. Sono a casa e il sangue è versato, ma soltanto fino a quando le vene trafitte non guariscono di nuovo e la mia acqua e zucchero ridiventa rossa, e il corpo e il cervello, tutti i centri del movimento, devono spostarsi o morire. Può essere una solitudine essenziale a costringermi ad andar via da casa. Può essere questo o quello, e questo e quello bastano per oggi. Povero Dylan. Povero lui. Povero me.
  Vorrei poterti fornire appunti sulle condizioni finanziarie, politiche, economiche, industriali e agricole di questa pigra e vocale terra, ma le mie capacità di osservazione naturale, mai molto chiare, mi darebbero ogni giorno meno Marx. Constato di non riuscire a vedere, lo scenario di un paesaggio è un semplice scenario per me, la botanica è botanica o Bottomley Horatio, obliquo; egli non sapeva certo quando fece gli alberi e i fiori che uno degli eletti gallesi sarebbe passato accanto ad essi, senza neppure accorgersi che esistevano. I miei occhi, lo so, guardano all'interno quando, e se, io guardo il mondo esterno, ed io non vedo nulla o me stesso; mi piacerebbe moltissimo dire che vedo tutto attraverso l'occhio interiore, ma la sola cosa che vedo è oscurità, nuda e non molto bella. Che cosa si può fare al riguardo? Gli uccelli dell'aria mi beccano i baffi. Pigramente io li scaccio, assorto in pensieri concernenti l'anatomia spirituale dei vermi di Denegai.
  Questa è una terra povera e sudicia, e i maiali vanno in fregola e grufolano nei salotti. Vi sono poche passioni politiche nell'ovest, sebbene quasi tutti sembrino favorire un blando repubblicanesimo. Il mio contadino sordo crede nelle fate, e accende una lampada rossa sotto la riproduzione, tolta da una rivista religiosa, della laida testa del Cristo dipinta da non so chi; anche i suoi calendari sono cristiani. Mi aspetto sempre di trovare una croce nella minestra, o una gallina crocifissa con spiedi ad un piatto unto.
  Hai saputo di Fred Janes? Abita alla rinfusa in una rovina e tumulto di studio a Kensington con Levy il barbuto e un paio di altri pittori irresponsabili e sfrenatamente convenzionali. Può darsi che torni presto a Swansea. Londra è schifosa quando fa caldo. Fred ama Gower come un coniglio di Rhossilli. Potrebbe anche condurre con sé Scott, dalla barbetta. Sarebbe bello. Ville la pena di conoscere Scott, e Fred è più seriamente e comicamente metafisico che mai.
  Siamo stati ospiti di Dan Jones a Harrow per alcuni giorni. Legge continuamente, ed è più intelligente che mai, ma la sua mente è un disastro, perché non conosce alcuna direzione. Non sa bene se darsi alla musica o alle lettere, sebbene se la cavi con competenza e spesso in modo brillante in entrambe le cose. Non mi stupirei di vederlo trasformarsi in un critico letterario di prim'ordine, capace di scrivere uno studio comparato delle letterature europee. Ha tutto quel che aveva Jamieson, con più arguzia, più sensibilità, e, tenuto conto delle sue limitazioni di tempo, una erudizione di gran lunga di più vasta portata. Trevor Hughes delle lettere non diluite non si è avvicinato ulteriormente al manicomio, ma l'odore delle celle imbottite gli sta aleggiando intorno alle narici. Di recente è diventato amico, consigliere e ammiratore di Pamela J., che ha disdegnato me come un piccolo ma dotato gallese dalle tendenze asociali e dalle abitudini decisamente immorali. L'ultimo romanzo di lei si è venduto bene ed è arrivato adesso alla quinta edizione. Il suo prossimo onorevole parto destinato agli scaffali delle librerie e al benessere degli uteri delle vedove si intitolerà Benedetta tra le donne.
  Gli altri miei conoscenti stanno pressappoco come sempre, grazie. Geoffrey G. ha una figlioletta, Caroline, e un nuovo porcospino. Di Norman Cameron uscirà presto un libro di poesie. E le mie prossime poesie saranno pubblicate da Dent. A questo punto le notizie scompaiono. La pioggia vien giù fitta ed io mi preparerò un po' di tè cremoso. Ti scriverò ancora, e in modo più interessante, spero, dopo il tè cremoso. Arrivederci, come si suoi dire (ed è una cosa laida a dirsi) per il momento.
  Per il momento è stato un lungo momento, e adesso è di nuovo mattina, con il vento che soffia dal mare e una nebbia ininterrotta sopra le colline. Ho fatto colazione, ho costruito un minuscolo ponte di sassi sul torrentello davanti alla porta di casa, sono caduto due volte nei melmosi rigagnoli ai lati del torrente e mi sono schiacciato il pollice con un martello. Tra mezz'ora o meno mi metterò al lavoro sul mio nuovo racconto Daniel Dom. Te ne avevo parlato, l'ultima volta che ci vedemmo? È basato sul Viaggio del pellegrino, ma narra le avventure di Anti-Cristiano nei suoi viaggi dalla città di Sion alla Città della Distruzione. Sono stato incaricato di scriverlo, ma non mi verrà corrisposto un soldo finché non avrò completato la prima mezza dozzina di parti o di capitoli. Gli agenti sono alquanto spaventati dalle bestemmie e dalle oscenità (e ne hanno motivo) e vogliono vedere fino a che punto sono puliti i sei capitoli prima di anticiparmi qualcosa. I poveri citrulli non si rendono conto che tagliere tutti i passi reprensibili quando manderò loro un riassunto e i primi capitoli, per poi reinserirli immediatamente. Ho terminato anche il racconto di John, è intitolato Cora la Vampira. Te lo manderò perché tu lo faccia vedere a John non appena lo avrò battuto a macchina.
  Compri ancora «New Verse»? Nel prossimo numero vi sarà una mia lunga poesia (Costernazione!)
  Non so per quanto tempo mi tratterrò qui; tutto dipende da come mi aggrediscono il silenzio e la solitudine. Avevo pensato di rimanere fino a settembre, ma i mesi caldi sono mesi lunghi. E sebbene non possa dire che i miei simili mi piacciono molto, e sebbene la mia coscienza sociale stia diventando ogni giorno più macchiata, non posso contemplare indefinitamente la mia faccia nello specchio come se fosse l'unica faccia del mondo, la mia barba come l'unica barba, i miei indisciplinati pensieri come i soli pensieri che contino sotto il sole, o nell'assenza di luce, e come i pensieri che rivalutano la terra a forma di uovo. Mi occorre qualcosa di più di un'eco, triste, grigia, perduta, dimenticata e dannata in eterno, che mi risponda in agosto e più della pecora contaminata con cui coitare sugli alti dirupi. Ma, se potrò, rimarrò qui fino a settembre, andrò a casa per qualche settimana, e poi tornerò a Londra all'inizio della stagione. Spero di avere una certa quantità di critica drammatica, o, se ciò ha un suono troppo pomposo, un po' di libero divertimento sulla scena e un po' di libero amore fuori di scena da qualsiasi attrice in cerca di pubblicità che riesca a trovare. È abbastanza onesto essere un critico disonesto del corrotto teatro commerciale in quanto i socialisti migliori succhiano tutto quello che possono dall'itterico buco del sedere di uno stato anti-socialista.
  Prima di dirti arrivederci, devo parlarti di Vicky Neuburg. Egli ha trovato un nuovo alloggio nel North London, una stanza pazzesca piena di libri, aringhe e scaldaletti, una serra calda come l'inferno con una fontanella piena di pesci rossi, e un giardino simile a una giungla in cui i componenti di uno strano clan Neuburghiano, il Circolo (mi sembra) dell'Arte e della Vita Creativa, si riuniscono, parlano, recalcitrano, schiumano dalla bocca, ringhiano e presumibilmente fanno del loro meglio in pratica per fornicare tra i giunchi e le felci verminose. In quanto a lui personalmente un giorno devo raccontarti, se ancora non te l'ho detta, la storia di come Alisteir Crowley trasformò Vicky in un cammello è un eccentrico del secolo XIX affetto da cancrena mentale, abietto come non mai, un prodotto della fabbrica di matti ebraica, addomesticato da Oscar; Runia Tharp è una credente nella voce della natura, e molla una scorreggia in bagno nella tenera convinzione che somigli nel timbro e nel tono alla voce di qualche spirito wordsworthiano che invoca un tafano. Riposino in purgatorio.
  Scrivi presto e molto a lungo, dicendomi tutto quel che v'è da dire e cui tu sai io sono interessato, cose personali, cose impersonali, politica locale, notizie, punti di vista, e tutti gli eccetera cui tu possa pensare. Di' il mio affetto a tutti... anche alla signora W. Ho visto una foca che somigliava alla signora W. ieri.

  Tuo,                                                                  

 

Dylan

 

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Il direttore della collana di poesie di Dent che aveva accettato di pubblicare il secondo volume di versi di Dylan, e che doveva restare la sua casa editrice inglese per il resto della vita di lui era Richard Church, egli stesso poeta di una generazione precedente. Il 6 ottobre 1935, Dylan, ormai tornato a Swansea, mandò a Richard Church «quasi tutti i manoscritti» anche se la cosiddetta serie di sonetti Sapiente d'altare all'imbrunire non era ancora terminata. Sembrerebbe che Richard Church non avesse afferrato che cosa stava cercando di fare Dylan nelle sue poesie, e di questo non si può certo fargli colpa perché ben poche persone lo capivano. Preferiva il Dylan più semplice, vale a dire le sue prime poesie, e confondeva la densità e l'occasionale oscurità dei suoi versi più recenti con il surrealismo. A queste critiche Dylan rispose come segue.


a Richard Church
9 dicembre 1935
Cwmdonkin Drive, 5, Uplands, Swansea

 

Caro Richard Church,
  grazie per la sua lettera, e per la schietta critica delle mie poesie. Apprezzo il disturbo che si è preso per rendere del tutto chiaro il suo atteggiamento nei confronti di queste poesie, e sono lieto che apprezzi tanto il mio lavoro da condannarlo quando lo trova
sebbene erroneamente, credo influenzato da un esperimento pernicioso come il surrealismo. Lungi dall'essere risentito a causa delle sue critiche, le gradisco invece moltissimo, anche se, per essere altrettanto schietto, penso che lei abbia male interpretato le poesie e si sia ingannato per quanto concerne il loro scopo. Non sono, non sono mai stato, non sarò mai, né potrei essere, del resto un surrealista, e per tutta una serie di ragioni: ho una pallidissima idea di quello che è il surrealismo; fino a molto di recente non ne avevo mai sentito parlare; non ho mai, che io sappia, letto anche soltanto un paragrafo di letteratura surrealista; la mia conoscenza del francese è ancora limitata a «la penna di mia zia»; non ho letto alcuna poesia francese, sia nel testo originale sia nella traduzione, da quando cercai di tradurre Victor Hugo agli esami di una scuola media di provincia, e non vi riuscii. Tutto ciò pone a nudo la mia ignoranza deplorevole della poesia contemporanea, ma, senza dubbio, smentisce le sue accuse. In quanto ad essere «travolto nel delirio della voga intellettuale del momento», devo confessare che leggo incresciosamente poca poesia moderna, e quella poesia «in voga» nella quale mi capita di imbattermi sembra essere più o meno propaganda comunista. Io non sono comunista.

  Spero che non avrà obiezioni, ma mi sono permesso, poco dopo aver ricevuto la sua lettera, di scrivere a un ottimo amico mio e di domandargli che cosa fosse il surrealismo, spiegandogli, al contempo, che un critico il cui lavoro conoscevamo e apprezzavamo entrambi, aveva giudicato surrealiste le mie poesie. Nella risposta egli mi ha detto quali riteneva che fossero le idee principali del surrealismo, e ha soggiunto che gli scritti surrealisti non devono avere «assolutamente alcun significato». (Ha citato alcune spaventose definizioni a proposito della «sovrapposizione satanica di oggetti non pertinenti ecc.»). Io credo di sapere quali siano alcuni dei maggiori difetti del mio stile: violenza immatura, monotonia ritmica, frequente confusione mentale, e immagini molto sovraccariche che conducono assai spesso all'incoerenza. Ma ogni verso si propone di essere capito; l'intenzione è che il lettore capisca ogni poesia pensandovi e sentendola, e non succhiandola attraverso i pori, o comunque gli scritti surrealisti vogliano che egli faccia. E neppure il nuovo gruppo di poesie alle quali sto lavorando è influenzato, in alcun modo, da un esperimento che non mi è assolutamente familiare. Lei ha trovato, e senza dubbio a ragione, molte cose cui obiettare in queste nuove poesie; io desidero soltanto assicurarle che questi difetti non sono dovuti né alla delirante adesione ad una voga intellettuale, né all'imitazione di ciò che, alla mia ignoranza, sembra essere un esperimento volutamente «irragionevole», nemico della poesia.
  Concludendo, ho un gran numero di poesie, semplici come le tre che le sono piaciute, ma che a parer mio non valgono nemmeno la metà di quelle che non può sopportare. Desidera che gliele mandi, o non preferirebbe che aspettassimo fino a quando potremo parlare di ogni cosa allorché verrò in città nei primi giorni del nuovo anno?
  Di nuovo, confido che lei non troverà questa lettera pretenziosa o impudente. Ho pensato moltissimo a quanto ha detto nella sua lettera, e il mio solo pretesto per la possibile pretenziosità della risposta è che realmente voglio farle capire come lei abbia
la colpa è della mia oscurità interpretato male lo scopo della mia ovviamente immatura poesia, attribuendola ad assurdità sperimentali delle quali quasi non conoscevo l'esistenza.
  Sinceramente suo,

 

Dylan Thomas

 

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Rayner Heppenstall, il poeta e il romanziere dello Yorkshire, aveva tre anni più di Dylan. Nel periodo in cui la lettera che segue fu scritta non aveva ancora pubblicato un volume, sebbene poesie e racconti fossero apparsi nelle riviste. Da dodici mesi i due erano stati grandi compagni di bevute, ogni volta che Dylan si trovava a Londra. Heppenstall ha descritto le loro sbornie e i loro schiamazzi nel libro Four Absentees. Oswell Blakeston era un altro poeta di questa generazione, notevolmente meno turbolento nel modo di comportarsi, e «Caravel» era una rivista letteraria. Clerkenwell e Kilburn sono quartieri operai di Londra, estremamente squallidi, mentre Limehouse si trova nel West End, vicino ai bacini, e include il quartiere cinese. Thomas Burke era imparentato con uno dei Burke e Hare, i dissotterratori di cadaveri a Edimburgo nei primi anni del secolo XIX, e figura nel film II dottore e i demoni, il cui soggetto Dylan doveva scrivere con Donald Taylor dieci anni dopo.


a Rayner Heppenstall
31 dicembre 1935

Cwmdonkin Drive 5, Uplands, Swansea

 

  Ti devo un monte di scuse, cinque scellini, e una lunga lettera. Non ho abbastanza notizie per scrivere una lunga lettera, non ho senz'altro i cinque scellini, ma mi scuso per il ritardo nel rispondere alla tua, una buona metà della quale ho quasi capito. L'inchiostro verde rende tutto illeggibile, in ogni caso, ma il tuo fa sembrare una poesia sanscrita anche un semplice indirizzo. A quanto ho potuto arguire, sei tornato o dal Rettorato o dal Fitzroy e ti sei preso una bella sbornia. Volutamente ti trovavi in una cittadella e ne sei uscito soltanto a scopi impudenti. Come te la stai spassando. Ma grazie ancora, sono felicissimo di avere tue notizie. Non penso mai al sidro senza pensare agli occhi neri, e un mero accenno a Clerkenwell riporta gli anni indietro come il profumo di vecchie violenze (quel che intendevo battere a macchina era vecchie violette, ma il diavolo mi porti se cancellerò qualcosa). Ora, nell'ultimo giorno dell'anno, mi accingo più o meno seriamente a battere una lettera a lungo ritardata, ma ormai tempestiva all'estremo. Sto battendola a macchina perché la mia scrittura è schifosa e la mano mi trema. Come, con occhi di linee, vedrai, mi sto godendo un'intimità casalinga lontano dalle barbe e dalle cravatte a farfalla, e rimarrò qui fino alla fine di gennaio. Incontriamoci quando tornerò in città e, bevendo birra, tuoniamo l'uno all'altro le tue poesie come piccoli Belloc e marciamo a gran passi lungo Bloomsbury agitando i manici.

  Ho ricevuto una lettera poco tempo fa da Oswell Blakeston; diceva di aver incontrato te e un tuo nuovo occhio nero, mi sembra, al Café Royal. Diceva che tu avevi detto di essere ormai completamente mansueto e non pili pugnace. Ma sii pugnace ancora una volta, soltanto una volta ancora, e attacca G. E. G. come un segugio. Come sta andando il libro, a proposito? Non leggo molti periodici, adesso, e ho visto pochissime recensioni. Vedo che stai scrivendo anche per il supplemento di Oswell a «Caravel». Sai niente di «Caravel»? Nella mia ignoranza, non ne avevo mai sentito parlare.
  Ho trascorso quasi tutta l'estate nella contea Donegal e ho sbrigato laggiù parecchio buon lavoro, ma un'ondata di pigrizia alquanto alcolica si è insediata in seguito e soltanto adesso sto ricominciando a mettere insieme parole. La macchina della poesia è ora così ben lubrificata che dovrebbe funzionare senza intoppi fino alla mia prossima visita intellettualmente rovinosa alle viscere di Londra. Voglio andare all'estero quest'estate, ma non so dove. Sai qualcosa della Spagna? Si può cavarsela senza spagnolo e senza soldi? (La stessa domanda si applica ad ogni paese e probabilmente finirò in uno studio-
camera da letto vicino a Fulham Road). Ma perché Kilburn, Rayner, tra tanti posti? Perché non un posto molto meno caro nell'East End? Se non hai niente contro i parassiti, puoi trovare un palazzo vicino a London Bridge per circa due scellini alla settimana. Vieni ad abitare a Limehouse con me e scrivi libri come Thomas Burke.
  Ti ho detto che non c'erano notizie. Conduco un'esistenza comoda, protetta, e ormai soltanto occasionalmente ebbra, a Swansea, con Fred Janes. Sto scrivendo una poesia lunghissima
e così tu, se interpreto bene la tua lettera nonché una serie di racconti-sogno, molto eterogenei, molto violenti. Vi è molto da dire, se mi è lecito coniare una frase, a favore del condurre una vita convenzionale. (Ma se ci penso, l'ho sempre condotta, poiché la cenciosa ubriachezza di Chelsea era ancor più convenzionale di questa).
  Scrivi una lettera qualche volta e dimmi che cosa stai facendo.
  Buona fortuna, e pesta Grigson.
  Tuo,                                                                        

 

Dylan